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La funzione della tristezza e l’elaborazione del dolore

Tutti noi facciamo i conti con momenti nella nostra vita nei quali viviamo emozioni come la gioia, la felicità e la sensazione di benessere, ma è anche vero che ci sono invece momenti più difficoltosi, nei quali ci confrontiamo con sensazioni di perdita, di sconforto, di lutto e ci troviamo ad affrontare di conseguenza un dolore, uno stato di malessere, in questi casi siamo più a contatto con la nostra tristezza. Prendendo spunto dal film di animazione Disney ‘Inside Out’, possiamo osservare quali aspetti importanti legati alla tristezza la ricolleghino a funzioni tutt’altro che secondarie o marginali. In effetti, bisogna poter dire che la tristezza ha, come le altre emozioni, una sua funzione ben specifica: essa serve a ritrovare in noi un giusto equilibrio, ad esempio dopo una separazione, due persone non sono più insieme, e devono fare entrambi i conti con la solitudine, la riorganizzazione del tempo libero, dello status di single e non più di coppia. In tal caso, preso come esempio, le persone devono poter fare anche i conti con la loro tristezza, ma cosa vuol dire? Ciò può significare ad esempio, concedersi del tempo da trascorrere al fine di elaborare la perdita o l’evento luttuoso. Di fatto una perdita porta con sè un lutto, una mancanza, alla quale serve del tempo per essere compresa, elaborata e accettata. Quando siamo tristi, abbiamo sia il bisogno di stare con gli altri, di non essere ‘da soli’, ma abbiamo anche la necessità di stare un po’ per conto nostro e di entrare dentro la tristezza stessa, concedendoci di accedere al dolore e accettarlo. Questo processo, ci permette di partecipare all’evento legato alla perdita, ma ci permette anche di rinnovarci, un po’ come nel mito della fenice, perdiamo così vecchie parti di noi, ricostruendone di nuove: la fenice nella metafora non fugge dal dolore che prova ma lo riutilizza per rinnovarsi, esattamente come dovremmo fare anche noi, accedere quindi al dolore e non fuggire da esso. Allora perché sentiamo di voler fuggire dal dolore? Ci sono diverse ragioni: la volontà di mostrarsi forti, di non cedere alla tristezza, di non essere fragili, indossando così però una maschera che nasconde il proprio dolore o la propria rabbia, queste sono alcune delle ragioni. In questi casi però, dobbiamo fare i conti con ‘la fuga dal dolore’, con metodi che vengono utilizzati per anestetizzare il dolore e la tristezza, in tali casi abbiamo ad esempio: l’uso di droghe, di alcol, di relazioni occasionali, soluzioni a breve termine che vengono utilizzate per compensare una mancanza. Bisogna però poter dire che, questi metodi sono in realtà strumenti che vanno a contrastare quel processo che richiede la massima attenzione da parte nostra, in quanto un processo che, in questo momento, è importante ed ha una principale rilevanza, è proprio quello di elaborare una propria consapevolezza sulla base dell’esperienza vissuta. Allora, andare nel dolore, permette di affrontare tutto questo processo, potrà essere un periodo di sofferenza, ma si tratta comunque di qualcosa di necessario, infatti gestire la tristezza non significa fuggire da essa quanto stare nel qui e ora per poter accedere di nuovo ad altri stati d’animo successivi, la tristezza non dura per sempre. Dobbiamo ricordarci infatti che bloccare il processo di rielaborazione non ci permette una crescita, ottenendo al contrario una durata infinita di sofferenze che si ripetono accrescendosi proprio dalla tristezza stessa. Concedersi di essere tristi, non significherà allora avere una vita triste, ovvero quella che auspicabilmente nessuno vuole, quanto concedersi un momento più o meno duraturo, ma comunque utile al proprio benessere psicofisico, che avrà un proprio riscontro nelle relazioni, in famiglia, nel lavoro e in tutte le altre aree della propria vita.


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